Quando i social sono nati, l’idea era che potessero ampliare le possibilità di ogni utente: più collegamenti, più relazioni, più informazione. Oggi sappiamo benissimo che è avvenuto l’esatto opposto. Quello che non si poteva prevedere a metà degli anni Duemila, quando è nato The Facebook, era che gli algoritmi, dopo innumerevoli cambiamenti, arrivassero a privilegiare contenuti più facilmente gradevoli ai singoli utenti. Ognuno di noi ha gusti e preferenze, ma la ricchezza sta nell’andare oltre queste inclinazioni e provare qualcosa di diverso. I social network invece agiscono sulla gratificazione immediata.

Basta «scrollare» la propria timeline per imbattersi in contenuti sempre simili fra loro. A me piace il calcio, ad esempio, per cui sovente guardo video di gol, partite storiche o chissà che altro. Visto il primo, me ne viene suggerito un secondo, poi un terzo e così via. È il funzionamento base del marketing: se mi interessa il calcio, sarà più semplice vendermi qualcosa di attinente al calcio. La questione è che potrebbe non interessarmi solo il calcio.

Poco tempo fa ho fatto un test. Ho iniziato a «scrollare» molto velocemente i vari video suggeriti nella speranza di trovare qualcosa di diverso. Non solo non mi è stato MAI suggerito nulla di differente (non solo dal calcio, ma dai diversi temi che normalmente mi vengono suggeriti) ma ho addirittura ritrovato gli stessi identici video già visti decine di volte, però pubblicati da account diversi. Negli ultimi tempi accade molto più spesso di rivedere le stesse identiche cose: il tizio che abbraccia il leone, l’altro che costruisce una piscina a mani nude scavandola nella terra, quello che fa il verso alle sfilate di moda, lo stesso comico che fa la stessa battuta in uno spettacolo andato in scena chissà quanti anni fa. Pagine e pagine che propongono e ripropongono le stesse cose da tempo.

Immagine presa da qui.

Perché lo fanno? Perché sono contenuti che funzionano. Anziché produrre qualcosa di nuovo e «rischiare», si preferisce ripubblicare l’usato sicuro – ovviamente rubando da altri e perdendo rapidamente il riferimento alla fonte iniziale. I social sono ormai dei contenitori di doppioni.

Negli ultimi anni anche i giornali si sono appiattiti su questa modalità. Se c’è un qualche contenuto che sta raccogliendo like e condivisioni, lo si riprende, si aggiunge una descrizione (e pure una firma…) e si ricondivide un’altra volta, ma sui canali del singolo giornale. L’ho fatto anche io e non ne vado fiero. La speranza è canalizzare la quantità di interazioni verso il sito web di una testata giornalistica, poco importa se quegli utenti siano interessati a leggere un giornale o no. Oggi, se vuoi stare sui social, le regole sono queste. Per me è la morte del giornalismo, ma forse sono troppo idealista.

Non sono un illuso, serve anche questa roba per tenere in piedi i siti e le imprese giornalistiche. Come diceva un mio amico americano, che lavora per un importantissimo portale di informazione internazionale: «siamo tra i più letti del mondo, ma pubblichiamo anche un sacco di spazzatura». La spazzatura serve a fare grandi numeri. Il problema è sempre l’equilibrio: se la spazzatura inizia a essere parecchia, se si continua a privilegiare la spazzatura al giornalismo, alla fine questa spazzatura sarà talmente tanta che ci ritroveremo a camminare in una discarica. E poi: perché gli utenti dovrebbero prendere da me, pagando, quello che possono prendere gratuitamente da decine e decine di account diversi? Oggi, se la imbrocchiamo, possiamo fare migliaia di contatti, ma di queste migliaia di utenti quasi nessuno, domani, si ricorderà di noi.

Non ho una soluzione, ma non escludo che qualcosa arriverà. Penso alle newsletter, ai podcast, ai canali che non consentono grosse interazioni ma che fanno solo ed esclusivamente quello che devono fare: informazione originale. Ti piace? Ne fruisci e paghi (perché questa cosa la faccio solo io). Non ti piace? Vai da un’altra parte senza necessariamente sbeffeggiarmi o insultarmi. È un pubblico certamente ridotto, ma esiste.

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