Il titolo di questo post è una forzatura, ma neanche così scandalosa rispetto a tanti titoli idioti o disonesti che i giornali ci propinano regolarmente. In Italia ci sono poco più di 103 mila giornalisti iscritti all’Ordine, di cui 28 mila professionisti e 75 mila pubblicisti. Per chi non sapesse la differenza, cioè almeno 59 milioni di italiani, il giornalista professionista è chi vive solo di lavori giornalistici, il pubblicista invece è chi fa anche altro. Possiamo quindi dire che abbiamo 28 mila persone che sicuramente vivono di giornalismo, alle quali aggiungo una cifra approssimativa, cioè metà dei pubblicisti (perché tantissimi pubblicisti vivono di giornalismo senza aver scelto di dare l’esame di stato e diventare professionisti). Così, quindi, arriviamo alla stima di 60 mila persone che vivono – si fa per dire – di giornalismo. E no, togliamoci l’immagine dei grandi giornalisti come Enrico Mentana o Massimo Gramellini, per nominare due volti televisivi noti ai più, perché la maggioranza è fatta di persone normali che hanno estratti conto ridicoli.

Non arriviamo a fine mese perché i compensi sono troppo bassi e avere un contratto di assunzione è quasi impossibile. In questo Paese, dare lavoro è ancora considerato come un premio: non ti assumo perché sei bravo e mi servi, ma ti assumo perché nella mia immensa bontà a un certo punto ho deciso di premiare la tua dedizione alla causa e la tua fedeltà all’azienda. Siamo ancora fermi a questo e nel giornalismo è peggio che mai.

Non divaghiamo: perché oggi i giornalisti scioperano? In tanti riceviamo stipendi inferiori ai mille euro al mese (anche mooolto inferiori) e nel 2025, in Italia, quella cifra è incompatibile con la vita. Non abbiamo prospettive, non abbiamo rimborsi spese, non abbiamo contratti degni di questo nome (se ti va bene, ottieni un fisso mensile molto basso grazie a un co.co.co. di durata annuale, nella speranza che l’anno dopo ti rinnovino). Non ci sono investimenti, ma ogni anno si taglia e si chiede ai giornalisti di lavorare sempre di più per guadagnare sempre di meno o, nella migliore delle ipotesi, sempre la stessa cifra. Perché i nostri stipendi sono fermi mediamente da almeno dieci anni, peccato che in questi dieci anni sia cambiato il mondo e ora l’inflazione e il costo della vita siano saliti un bel po’. Dieci anni fa potevi cavartela con 1200-1300 euro al mese, ora ne servono almeno 1500, poi dipende anche da dove vivi.

In media, un giornalista guadagna meno di mille euro al mese, non ha prospettive, né rimborsi, né contratti degni di questo nome. Non ci sono investimenti e ogni anno si taglia.

Il problema della nostra categoria è che, per deformazione professionale, siamo portati a considerarci separati dal resto della società. Un po’ perché, se dobbiamo raccontare qualcosa, dobbiamo restare un passo indietro. E un po’ perché, credendo di vivere ancora negli anni Settanta, ci riteniamo autorevoli e superiori alla media. Sono tutte balle: la gente non ha più bisogno dei giornalisti e dobbiamo rendercene conto, altrimenti non si spiegherebbe il crollo costante di copie dei giornali in edicola. E poi siamo portati a dividerci tra noi, perché spesso i giornalisti «scritti» si ritengono superiori ai fotogiornalisti, ma siamo tutti sulla stessa barca. Dobbiamo quindi essere uniti e ricoprirci di tonnellate di umiltà per capire che, prima di tutto, siamo cittadini dello Stato che dovrebbero godere dei diritti costituzionali. Siamo lavoratori, che grazie al loro lavoro devono poter vivere e stare dentro una società. Anche i giornalisti fanno la spesa e guardano le offerte al supermercato, usano poco l’auto perché costa (o forse nemmeno ce l’hanno), viaggiano poco perché costa e, soprattutto, prima di mettere su famiglia ci pensano, e tanto.

L’altro problema è che i giornali non parlano dei giornali; quindi, nessun lettore ha contezza delle vergognose condizioni di lavoro in cui siamo costretti in più di sessantamila. C’è una specie di pudore insensato nel non pubblicare notizie legate a problemi di lavoro o altro, salvo, ogni tanto, scrivere di passaggi di proprietà e acquisizioni (ma lo fanno in pochi e neanche sempre). L’idea è che se si scrive degli altri giornali si è autoreferenziali, questo ci può stare, ma non siamo autoreferenziali quando pubblichiamo le marchette sui libri pubblicati dai colleghi non perché siano interessanti ma perché «va fatto»?

Ho sentito autorevoli firme di grandi giornali parlare dei «lavoratori poveri», cioè quelli che lavorano regolarmente e pure tanto ma comunque non arrivano a fine mese. Bene avere denunciato questa condizione, ma chi l’ha fatto si è dimenticato di dire che i primi lavoratori poveri sono proprio i giornalisti. Ha senso che, per continuare a fare questo mestiere, in tanti ci ritroviamo a fare decine di lavoretti extra che tolgono energia, tempo e indipendenza alla nostra professione? Uno dice: be’, cambia mestiere. Ma direste mai a un operaio di cambiare mestiere perché la sua azienda non lo paga abbastanza? E poi, anche fosse, pensate che in altri settori sia meglio?

I primi lavoratori poveri in Italia sono proprio i giornalisti: lavorano tanto ma comunque non arrivano a fine mese.

Lo Stato, governato da una formazione politica che dice di fare gli interessi del popolo, deve mettere gli editori con le spalle al muro. Esistono le norme che regolano l’equo compenso ma non sono applicate quasi da nessuna parte, ma in sostanza esistono imprenditori italiani che sfruttano i lavoratori italiani. A ben vedere, non è una novità. E poi ci sono diversi parlamentari della Repubblica che sono anche iscritti all’Ordine dei Giornalisti. Che cosa fanno per la categoria? L’Ordine dovrebbe convocarli e dire: o portate in Parlamento le istanze della categoria di cui fate parte oppure siete fuori dall’Ordine dei Giornalisti. Sarà anche un approccio illiberale, ma io sono convinto che la parola «liberale» abbia un significato contrario a quello della parola «democratico». Poi esiste una parte della nostra categoria connivente con le aziende che si rivela fondamentale nel portare avanti il nostro sfruttamento, ma questo succede un po’ in tutti i settori. Il fatto incontrovertibile è che ci sono sessantamila lavoratori italiani che non arrivano a fine mese pur lavorando tanto.

A chi, ancora una volta, tira fuori la storia che gli scioperi si fanno di venerdì per avere il weekend lungo rispondo con due domande. La prima: anziché perdere una giornata di stipendio facendo sciopero non converrebbe chiedere un giorno di ferie? La seconda: nella società attuale, ormai, siamo costretti tutti a lavorare pressoché tutti i giorni; quindi, cosa cambia scioperare di giovedì o di venerdì se tanto sabato e domenica si lavora? Corollario: i giornali escono tutti i giorni, così come radio e tv trasmettono tutti i giorni, quindi di cosa stiamo parlando? Tralascio i discorsi sulla libertà di stampa a rischio e sulla democrazia a rischio, perché a farli ci pensano già i nostri rappresentanti istituzionali. Però, consentitemi, visto che alle persone interessa molto poco cosa succede alla libertà di stampa (questo è il periodo attuale, facciamoci i conti) io cambierei prospettiva: i giornalisti sono prima di tutto lavoratori e prima ancora cittadini italiani, devono avere gli stessi diritti di tutti. Oppure esistono italiani che sono più uguali degli altri.

Ultima cosa: i giornalisti minacciati o sotto scorta in Italia sono tanti, troppi per una democrazia, e questa situazione fa comodo, ma fa comodo a chi governa il potere, non ai milioni di italiani «normali».

Un pensiero riguardo “Sessantamila lavoratori in Italia non arrivano a fine mese: si chiamano giornalisti

  1. Grazie per aver detto la verità su di un mestiere svilito e vituperato. ho sognato di fare il giornalista tempo fa ma mi son dovuto ricredere dopo un tirocinio durato appena tre mesi e pagato qualcosa come trecento euro. Una Vergogna!

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