La dismissione del gruppo Gedi, posseduto dalla famiglia Elkann, porterà il quotidiano «La Stampa» a finire nelle mani del magnate greco Theodore Kyriakou, che ha già fatto sapere di volersi disfare del giornale torinese fra pochi mesi (e forse anche di «Repubblica», inclusa nel pacchetto). L’interesse sarebbe solo legato alle frequenze radiofoniche. E dire che un’altra offerta per «La Stampa» c’era, quella di Leonardo Maria Del Vecchio, capo del colosso degli occhiali Luxottica, ma non è stata accettata anche perché, probabilmente, il presidente di Exor John Elkann, che controlla Gedi, intende vendere tutto insieme senza fare lo «spezzatino». O forse per altro genere di antipatie.
Torino crea, Torino perde. Torino attira le Atp Finals, se le gode qualche anno, non produce assolutamente niente di duraturo sul territorio – a parte le ottime ricadute economiche che, tuttavia, cesseranno alla sparizione dell’evento – e fra un anno probabilmente piangerà lo «scippo» delle Atp da parte di Milano. A Torino nasce la Rai che poi se ne va (ma il centro di produzione oggi è tornato ai vecchi fasti, almeno quello), a Torino nasce il cinema che poi se ne va, a Torino nasce l’Italia che poi, in un certo senso, se ne va.
Torniamo al quotidiano di via Lugaro. Non si può negare che «La Stampa» rappresenti un pezzo di storia di questo territorio, che la si legga o meno. E poi, riprendendo il discorso fatto un paio di settimane fa sul lavoro (povero) giornalistico, è una realtà con tanti dipendenti, tante famiglie che ora hanno paura per il futuro. Quando smetteremo – noi giornalisti, ma in generale tutti quanti – di avere paura del futuro?
I segnali sono poco confortanti. La cessione a un gruppo straniero, o comunque lontano dal territorio, de «La Stampa» arriva dopo altre illustri cessioni. Iveco, ad esempio, ceduta al gruppo indiano Tata Motors. Altro gioiello della Exor di John Elkann, che come se niente fosse ha dato via un pezzo di storia del territorio piemontese e dell’Italia. Ma più che la cessione in sé, la situazione di Iveco è indicativa di una strategia di dismissione dell’intero automotive da parte del gruppo Exor, con la cessione della maggioranza di Comau, la crisi di Cnh Industrial e l’ormai innegabile ridimensionamento di Fiat a semplice brand di Stellantis, che serve per qualche campagna promozionale in Piemonte (e la produzione di alcuni modelli di auto certo non sufficienti a risollevare il settore nella regione). L’unica azienda «di famiglia» a non rischiare, per adesso, è la Juventus.
E poi c’è Italdesign, creatura di Giorgetto Giugiaro e Aldo Mantovani di cui Audi deteneva le quote di maggioranza, appena ceduta al gruppo statunitense Ust (ma Lamborghini dovrebbe mantenere la propria quota). La realtà con sede a Moncalieri conta, in totale, 1300 dipendenti. Quindi parliamo di altre 1300 famiglie in ansia per il futuro. Di nuovo questa parola, sempre in chiave negativa. Forse è colpa mia che la scrivo in questi termini, ma come poter fare diversamente?
A ben vedere, il settore industriale torinese è stato per oltre un secolo succube dell’automotive. La famiglia Agnelli e i suoi derivati, se da un lato ha consentito lo sviluppo della cosiddetta metropoli e dell’indotto, dall’altro ha rallentato o impedito l’esplorazione di strade alternative. E mentre i pezzi dell’edificio man mano venivano giù, quasi nessuno, a Torino, l’ha denunciato, ma si è sempre preferito lasciare tutto sotto il tappeto dell’understatement sabaudo. Understatement che, in altre città d’Italia, si chiamerebbe più semplicemente omertà.
Eppure, la manifattura piemontese esiste ed è viva. Il Basso Piemonte è un’eccellenza internazionale per quanto riguarda l’enogastronomia, le montagne – cambiamento climatico permettendo – sono una costellazione preziosa, mentre l’agricoltura è certamente un settore centrale. Solo Torino sembra rimasta impantanata fra il lutto mai elaborato di non essere più capitale (altrimenti non si annuncerebbe “Torino capitale di qualcosa” a ogni pie’ sospinto) e l’amore mai corrisposto con la Fiat, per non parlare della sottomissione fantozziana alla famiglia Agnelli e alle relative discendenze. Per tacere delle eccellenze culturali qui vituperate, sottoposte a insostenibili pressioni burocratiche e incensate soltanto quando riescono, in altre città, a diventare grandi, conosciute e per certi versi «pop», per poi tornare qui tra mille complimenti. Nemo propheta in patria, a Torino più che mai.
Questa è una città straordinaria che ha la fortuna di guidare una regione ancora più straordinaria, ma è totalmente incapace di fare autocritica e di prendere coscienza dei problemi prima che esplodano. Meglio non dire, non si sa mai. La «fuga» di determinate realtà industriali è solo una conseguenza della più profonda e cronica assenza di visione politica e istituzionale che avvelena queste lande da troppo tempo. A rimetterci, come sempre, sono ancora i torinesi. Finché non saremo ceduti anche noi, magari in blocco, a un facoltoso gruppo straniero o «foresto» che poi ci rivenderà al miglior offerente.