Gli occhi di Gianluca non erano mai stati così vivaci. Il piccolo, mentre era costretto a letto da una fastidiosa influenza, era diventato intrattabile. I suoi genitori facevano di tutto, compatibilmente con i turni di lavoro, per farlo stare bene, ma solo quell’idea, maturata durante un pranzo con un amico, aveva dato tregua alla convalescenza del bimbo. Nella sua cupa cameretta, resa triste dalla febbre e dal maltempo, era comparsa una grande e variegata macchia di colore: un meraviglioso acquario.

Nella teca di vetro che troneggiava su un mobile basso c’era proprio tutto. Le alghe, le conchiglie vuote che costruivano un accogliente habitat per i pesci, la ghiaia di fiume. Ma c’erano soprattutto alcuni pescetti, i cosiddetti «pulitori», che sembravano come attaccati alle pareti. Al centro dell’acquario nuotavano spensierati altri pesci colorati, i cui nomi erano ignoti perché il padre di Gianluca, quando li aveva acquistati al negozio di animali, aveva dimenticato di prendere appunti. Poco male, suo figlio avrebbe pensato a rinominarli uno per uno. Il piccolo sorrideva, osservava ogni giorno quella sorta di miracolo che si muoveva a pochi metri da lui.

La convalescenza passò in un battibaleno, il bimbo tornò a scuola in forma e guadagnò, da quell’esperienza, un nuovo piccolo mondo di cui prendersi cura. È vero, qualche pescetto non sopravvisse, ma purtroppo era una cosa da mettere in conto, avendoli tolti dal loro habitat naturale. Man mano che il tempo passava e che Gianluca cresceva, il bambino poi diventato un ragazzo iniziò a rendersi conto che quel bellissimo oggetto pieno di vita era in realtà una costrizione. Dalla sua finestra, attraverso la quale poteva intravedere i contorni eleganti del Ponte Isabella, osservava lo scorrere del Po e le sue acque. Si chiedeva se anche nel fiume ci fossero dei pesci, magari diversi dai suoi, che avevano la fortuna di vivere in libertà.

Gli anni passarono, Gianluca cresceva e continuava a curare il suo acquario, sempre più dubbioso. «E se liberassi i pesci?» disse un giorno a suo padre. «Che dici?», gli rispose, «poi muoiono». Sempre vissuti al sicuro tra i vetri quotidianamente ripuliti, i suoi «amici», come li chiamava lui, erano cresciuti senza difficoltà, solamente in attesa di un po’ di cibo dall’alto. Ma come avrebbero potuto procurarsi da mangiare in un ambiente libero? Perché libertà, in effetti, vuol dire anche pericolo, responsabilità individuale, selezione naturale. Gianluca avrebbe dovuto «allenare» i suoi pesci ad affrontare il mondo.

Il piano, quindi, fu tanto cruento quanto vicino alla realtà. Gianluca avrebbe diminuito gradualmente il cibo nell’acquario, per indurre i suoi pesci a diventare più cattivi, voraci, pronti a vivere da soli nelle acque agitate di un fiume. Terminato questo crudele addestramento, avrebbe liberato i più forti nel Po. Era un piano ingenuo, a ben vedere, ma era l’unico modo che aveva per restituire quegli animali alla loro vita. Del resto erano pesci d’acqua dolce.

Dopo qualche settimana alcuni pesci erano morti, un po’ per gli stenti, un po’ perché attaccati dagli altri pesci. Gianluca si dispiacque, ma si disse che in natura sarebbe stato molto peggio. L’addestramento continuò, il cibo diminuì ancora e altri pesci scomparvero. Gianluca iniziò a tentennare, ma poi si disse che in natura sarebbe stato molto peggio. Dopo qualche settimana rimasero soltanto tre pesci, che dopo aver eliminato tutti gli altri si guardavano in cagnesco (o meglio, questa era l’impressione) cercando di mangiarsi a vicenda. Il ragazzo si disse che era arrivato il momento. Svuotò parte dell’acqua dentro una capiente vaschetta alimentare, poi catturò, con difficoltà, i tre pescetti con un retino, per trasferirli nel contenitore. Lo chiuse accuratamente con il coperchio e lo infilò nello zaino. Tutto questo avvenne quando i suoi genitori non erano in casa. Gianluca uscì, attraversò il parco del Valentino, giunse in riva al Po e aprì il recipiente. I tre pesci erano vivi e affamati, li salutò per l’ultima volta e rovesciò tutto il contenuto della vaschetta nel fiume. I suoi amici presero confidenza con la corrente, svanirono nel buio del fiume insieme a qualche pezzo di alga che, nel cercare di togliere i pesci dall’acquario, si era impigliato nel suo retino ed era finito nel contenitore.

Gianluca tornò a casa pensieroso, chiedendosi se avesse fatto bene, forse sarebbero morti, ma forse no. In ogni caso sarebbero tornati finalmente al loro habitat. Più sicuro di sé, il ragazzo tornò a casa e iniziò a ripulire l’acquario ormai vuoto. Quando rientrarono, i suoi genitori gli chiesero spiegazioni, il giovane rispose che i pesci erano morti e lui, dispiaciuto, aveva buttato tutto. «Non vorrò più nessun acquario», disse lui. I genitori si dispiacquero, ma oramai Gianluca era grande, andava bene così.

Mesi dopo, al telegiornale, il ragazzo vide un servizio che parlava di una nuova piaga che affliggeva il suo amato Po. Un’alga infestante si era diffusa nelle sue acque, grosso modo tra il Ponte Isabella e il Ponte Vittorio Emanuele I, di fronte alla Gran Madre. Un grande manto verde che sorgeva dagli abissi stava soffocando tutto, tutto. Gianluca si chiese se i suoi pesci sarebbero sopravvissuti, poi sentì il nome dell’alga: si chiamava Myriophyllum. Stando alle prime analisi, si trattava di un genere molto utilizzato negli acquari, che negli acquari sarebbe dovuto rimanere.

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