Afya corse a prendere un mestolo, era la prima cosa che le saltò in testa di fare quando sulla soglia di casa si presentò, ancora una volta, Momo. «Maledettissimo figlio d’un cane!», gli urlò, cercando di colpirlo con il mestolo mentre i bambini restavano impietriti, avvolti nelle lenzuola del loro letto. Mohammed cercò di fermare il braccio della donna, senza convinzione. Sapeva, in qualche modo, di meritare quei colpi. «Tu! Miscredente – urlava ancora Afya –, è tutta colpa tua! Bastardo maledetto!». Lo colpiva, lo colpiva ancora mentre lui, a fatica, entrava dalla porta e la richiudeva alle sue spalle incassando i colpi. Afya era stanca, il suo volto era distrutto dalle lacrime, che oramai non sgorgavano più. Momo era alto e possente, segnato dalle ferite e dalle percosse ricevute dai militari, ma era appena scalfito dalle mestolate di Afya. Non tanto per il dolore in sé, quanto per il motivo di quella reazione. Karim e Mahe non uscirono a salutare lo zio, la donna si lasciò cadere sulla sedia di bambù intrecciato che, un tempo, era il posto prediletto da Oumar. Provò a piangere ancora, non ci riuscì, poté soltanto singhiozzare.
Momo restò in piedi e la guardò, sentendosi in colpa. «Ora vuoi fare arrestare anche noi?», disse Afya. «Ti sbagli – ribatté Mohammed –, sono venuto a salvarvi». La donna scoppiò a ridere nervosamente, cercò di alzarsi ma era troppo debole, così desisté e riprese ad agitare in aria quel dannato mestolo. «Tu lo sai cosa stiamo passando? Hai la benché minima idea?» disse ancora, con tono rabbioso, mentre Momo diede uno sguardo alla camera per osservare i bambini. Lo fissavano terrorizzati. «Dovete venire con me – aggiunse lui – perché sono partiti i rastrellamenti. Il Comitato può occuparsi di voi, ma adesso dovete fare le valigie velocemente, abbiamo poco tempo».
Afya gli lanciò il mestolo in faccia, colpendolo in pieno sul naso. Momo non disse nulla, ma si inginocchiò e la guardò negli occhi. «Ti prometto – sussurrò – che troverò Oumar, fosse anche l’ultima cosa che faccio». «Non promettere – rispose Afya – perché non è roba per te». L’uomo tornò in piedi, osservò il disordine in quella che una volta era la sala da pranzo, guardò l’angolo cottura e notò dei residui di cibo che macchiavano la superficie del piano cottura. «Moussa Traoré è in città», disse, voltandosi verso i bambini. Afya non si mosse. «Il tuo schifosissimo presidente» commentò, con lo sguardo perso nel vuoto. «Sì, il mio schifosissimo presidente – rispose Momo –. Proprio lo schifosissimo presidente che vi accoglierà nel suo comitato e che libererà il Mali». «Lo schifosissimo presidente che ha fatto sparire Oumar» ribatté Afya. «Ti sbagli – obiettò l’uomo –. Chi ha fatto sparire Oumar è stato Modibo Keita, e noi siamo qui per cacciarlo per sempre e riprenderci il nostro Paese, per salvare il nostro popolo».
Afya trovò le forze di tirarsi su. Tolse il grembiule e lo gettò per terra, poi si sistemò il vestito a fiori, raggiunse i bambini e li abbracciò forte, li convinse, delicatamente, a uscire dalle lenzuola per cambiare i vestiti. Li lavò, diede loro abiti puliti e riempì un borsone. «Seguite lo zio – disse Afya –, siamo intesi?». Karim e Mahe annuirono, spaventati. «E tu?» disse Momo. «Prima devo fare una cosa, iniziate a scendere, vi raggiungerò fra poco. E sia chiaro, lo facciamo solo perché non abbiamo alternative, oramai siamo tutti morti come te». Un po’ interdetto, l’uomo decise di fidarsi, prese con sé i bambini e insieme scesero le scale di cemento che collegavano i diversi piani del palazzo. Sotto, un’auto guidata da un ragazzo di nome Sahel, sorridente e armato, li attendeva.
Afya si lavò velocemente, buttò via i vestiti sporchi e ne prese di puliti. Accese l’incenso, profumò l’ambiente e poi spostò il letto sul quale, fino a un paio di settimane prima, aveva dormito con Oumar. Tolse una mattonella già smossa, dopo averla alzata con un coltello. Recuperò così una scatola di latta bordeaux, un po’ impolverata e leggermente ammaccata. La donna si guardò intorno, come per assicurarsi di non essere osservata, sebbene fosse un gesto stupido, quindi l’aprì. All’interno c’era una foto di lei e Oumar da giovani, poche settimane dopo il matrimonio, quando Bamako era ancora sotto i francesi e, tutto sommato, vivevano in maniera tranquilla. Poi c’erano molti franchi, soldi messi da parte per i bambini che ora, viste le riforme e la situazione del Mali, non valevano più nulla. Fu sul punto di buttare via tutto, ma decise di tenerli, erano il simbolo degli sforzi fatti da lei e Oumar per costruire quella piccola vita insieme, ora a un passo dalla scomparsa.
Quella casa, quel piccolo appartamento considerato da benestanti secondo i suoi parenti di Kambila, il villaggio da cui Afya proveniva, andava abbandonato, lasciato indifeso alla furia distruttrice dei militari di Keita, che si erano già portati via l’amato Oumar – e insieme a lui anche le speranze di rivederlo – e ora la costringevano a fuggire per entrare, suo malgrado, nel Comitato di liberazione, senza sapere che cosa sarebbe stato di lei e dei bambini. Avrebbe dovuto scegliere fra i militari del governo e i militari dell’anti-governo. Si sarebbe dovuta mettere nelle mani di Momo, perché una donna sola, in quella capitale disastrata e segnata dalle botte e dagli spari, era una preda veramente troppo facile.
Afya riposizionò la mattonella e il letto, riempì un secondo borsone con i suoi vestiti e con una camicia di Oumar, che lei gli aveva regalato per il compleanno del 1961, il primo «nell’era della libertà». Quanto si sentiva stupida ad aver chiamato in quel modo, con speranza, il momento in cui i francesi avevano lasciato il Mali, ma ebbe la consapevolezza di non essere stata l’unica. In tanti, come lei, davvero avevano sperato di stare meglio. Senza i colonizzatori, avrebbero tutti potuto, finalmente, essere artefici del proprio destino. E invece, in quel momento, Afya era costretta a scappare con i suoi figli, senza suo marito per il quale aveva pianto tutte le lacrime che aveva da piangere, al seguito del cognato, un ribelle maledetto, senza Dio, senza morale, accecato dal desiderio di vendetta contro lo Stato e nulla più.
Si preparò, volse un ultimo sguardo all’amata casa, poi uscì, chiuse la porta alle proprie spalle e raggiunse Momo e i bambini. Salì in auto dopo aver rivolto uno sguardo diffidente a Sahel, che si era presentato senza togliere gli occhi dalla strada, e guardando velocemente Momo, che si era seduto davanti. Afya, Karim e Mahe occupavano il sedile posteriore, abbracciati ai loro borsoni e tenendosi tutti per mano. L’auto, una berlina europea che aveva visto tempi migliori e con una targa contraffatta, si allontanò velocemente da lì.
Mentre scorrevano le vie di Bamako, davanti agli occhi di Afya, la donna immaginò il percorso del pullman guidato da Oumar. Evitò di singhiozzare ancora per non turbare i bambini, ma fu davvero difficile. Tutto intorno si lottava, i ribelli assaltavano i posti di blocco dei soldati e c’erano anche dei militari che passavano al Comitato di liberazione. Almeno, questo le diceva Momo, che era ossessionato dallo stabilire un confine, un limite che distingueva i buoni dai cattivi. Modibo Keita era il male assoluto, il cancro del Paese che andava rimosso. Moussa Traoré era la cura, la libertà, la pace. Niente sfumature, solo di qua o di là. «Con lui – disse Mohammed – potremo finalmente vivere in un Paese democratico». «Sai che cosa diceva sempre tuo fratello?» intervenne Afya. Momo si voltò verso di lei. «No – disse –, che cosa diceva?». Afya guardò fuori dal finestrino, fece una piccola pausa e poi aggiunse. «Diceva che in Africa bisogna sempre diffidare della parola “democratico”, soprattutto se associata a un governo».
Ci fu silenzio, l’auto scivolò indolente fra le strade infiammate di Bamako.