Si fa risalire al 25 aprile 1945 il momento in cui l’Italia, ufficialmente, uscì dalla Seconda guerra mondiale. Mi sono sempre chiesto come avessero vissuto le persone in quel periodo. Svegliarsi il 25 mattina in guerra, andare a dormire il 25 sera in pace? Oppure, peggio ancora, sparare a qualcuno il 24 aprile, mettere in cantina il fucile il 26 aprile. È ovvio che non sia stato così, ma l’inevitabile semplificazione storica ci porta a pensarlo. Basta leggere qualche libro ben fatto, o qualche cronaca dell’epoca, per capire immediatamente che già nei giorni precedenti al 25 aprile si sapeva che le ostilità sarebbero cessate di lì a poco, mentre nei giorni successivi a quella data si continuarono a tenere le armi in mano, qualche proiettile fu ancora sparato e ancora qualche anima se ne andò all’altro mondo.
È così con tutti gli avvenimenti storicizzati. Abbiamo una data di inizio e una data di fine, ma sono ovviamente delle convenzioni. Chi non si è distratto alle lezioni di storia a scuola saprà benissimo che lo scoppio della Seconda guerra mondiale, ad esempio, non è avvenuto da un momento all’altro – al netto delle dichiarazioni di guerra ufficiali –, ma è stato un’escalation di fatti sempre più gravi che affondavano le loro radici socio-politiche nella Prima guerra mondiale, nella Grande Guerra. Tranquilli, questo post non è una lezione di storia.
Lungi da me paragonare il periodo che stiamo vivendo a una guerra, per quanto in molti stiano continuando a utilizzare questo metro di valutazione. Lungi da me perché per mia fortuna non ho mai vissuto una guerra. Inoltre non ho paura che qualcuno mi spari addosso o mi bombardi la casa, quindi cercherei di rivedere un po’ i criteri di paragone. Come scrivevo all’inizio, però, mi sono sempre chiesto come le persone vivessero i momenti di una guerra prima di sapere che sarebbe finita. L’attesa di un periodo di pace e libertà che non si sapeva quando sarebbe arrivato, ma si immaginava – si sperava – che sarebbe arrivato «molto presto». La domanda che oggi ci poniamo tutti è: quanto durerà?
Il punto è che non lo sappiamo con certezza, di certo non può essere un Dpcm a stabilire la durata di una pandemia. Non lo sappiamo e questo ci fa letteralmente impazzire: siamo abituati a ragionare per periodi netti. Si lavora dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 18 (si fa per dire, è solo un esempio). Si va a scuola da settembre a giugno. Le vacanze di solito si fanno tra luglio e agosto e generalmente per due o tre settimane. Oppure una sola settimana. Partiamo domani e torniamo domenica prossima. I giornali escono domani mattina, il telegiornale è alle 19.30 oppure alle 20. Puoi venire a ritirare l’auto giovedì, al mercato ci vado sabato, ci vediamo domani mattina alle 9 (anzi, domani no, ma era un altro esempio).
Ogni cosa ha una collocazione precisa sulla linea del tempo e sapere quando finirà ci rassicura. Anche quando guardiamo un film controlliamo prima la durata (c’è chi non lo fa, io ad esempio lo faccio), forse per un riflesso incondizionato. Se sappiamo quanto durerà qualcosa ci illudiamo di averne il controllo. Tutto ciò che non rientra in una collocazione precisa genera ansia, incertezza. Le cose devono avere una fine, devono dannatamente finire prima o poi. Una pandemia quanto può durare? Sei mesi? Un anno? La Spagnola – fra i paragoni più in voga ultimamente – durò circa tre anni. Quindi ci aspettano tre anni di Covid? Ma no, erano altri tempi, oggi abbiamo una medicina più potente, la scienza è più avanti, non durerà tre anni.
Credo che lo stress più grande di questo momento sia dovuto al fatto che non sappiamo con certezza quanto durerà. Il motivo, penso, è ancora più profondo. Perché dobbiamo sapere esattamente quanto durerà? Forse vogliamo conoscere il momento in cui potremo tornare a vivere come facevamo prima. L’altra domanda che ci facciamo, o forse che non vogliamo farci, è: ma tornerà davvero tutto come prima? C’è chi ci spera, chi invece spera l’opposto. La verità è che nessuno di noi ha voglia di cambiare di una virgola il proprio modo di vivere, per questo ci auguriamo – al di là della questione prettamente sanitaria – che la pandemia finisca il prima possibile. Non sappiamo ancora, nonostante speculazioni e interviste varie, come vivremo dopo, ma sicuramente, al di là del mondo che troveremo, ci sarà sicuramente qualcosa di diverso: noi. Probabilmente la conclusione di questo momento svelerà se saremo migliori o peggiori e anche questo, in effetti, spaventa un po’.
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