Correva, correva come se dovesse acciuffare il vento. Correva come una diligenza, saltava ostacoli e persone come se fosse inseguito da un nemico, correva urtando donne e uomini senza distinzione, schivando i bambini e raccogliendo insulti. Gianni era in ritardo, ritardissimo, ma per sua fortuna conosceva a menadito vie e viuzze di Torino, sapeva muoversi agilmente tra carretti e carrozze, persino tra i banchi del mercato di piazza delle Erbe, giù dalla chiesetta del miracolo fino all’albergo. Era lì che si dirigeva, al Dogana Nuova dove aveva iniziato a lavorare come facchino da un mesetto, guadagnando qualche soldo utile a sostenere la famiglia giù in Borgo Dora, dove mamma e papà facevano i mercatali e gli altri fratelli, chi più e chi meno, raggranellavano qualcosa in giro con qualche lavoretto. Gianni all’albergo era una notizia che aveva rallegrato mezzo quartiere, ma il solo pensiero di perdere quel lavoro per un ritardo gli aveva letteralmente messo le ali ai piedi.

E pensare che il direttore dell’hotel si era raccomandato giusto il giorno prima. «Domani arriveranno ospiti importanti – aveva detto – quindi vi voglio puliti, profumati, in ordine e soprattutto puntuali». Ecco. Gianni arrivò quasi a schiantarsi alla porta d’ingresso, la spalancò e si fiondò dal concierge, sperando di non farsi vedere. In quell’esatto momento arrivò il direttore. «Tempismo perfetto – gli disse ironicamente, mentre Gianni ansimava dalla corsa, madido di sudore e paonazzo in viso –, i nostri ospiti stanno per arrivare. Vada a rendersi presentabile».

Gianni si cambiò, bevve un po’ d’acqua da una brocca, poi si diede velocemente una rinfrescata e indossò la divisa bordeaux a bordi dorati dell’albergo, poi il cappellino e i guanti bianchi. Era pronto e aveva salvato il lavoro. Perfetto. Tutto impettito, si fece trovare all’ingresso dell’hotel mentre una elegante carrozza si fermava. Andò ad aprire la porta, sorvegliato dal direttore. Ne scese un uomo distinto, severo nell’aspetto, che non lo degnò di uno sguardo e fu immediatamente preso in custodia dal direttore. Poi scese una ragazza, che avrebbe potuto avere la sua età, dolce ma dall’espressione contrita, gli occhi tristi che incrociarono i suoi, il viso impostato. Ma Gianni fu subito redarguito. «Va’ a tirar giù i bagagli – ammonì il direttore dell’hotel – non star lì impalato». Il garzone si arrampicò sulla carrozza e iniziò ad armeggiare con borse e valigie, ma poté notare un ragazzino, timido, troppo austero per la sua età, giovanissimo ma già adulto, che scese per ultimo e raggiunse il gruppo. Il direttore fu ossequioso, Gianni fu incuriosito ma continuò a cercare lo sguardo della ragazza. Il trio di ospiti veniva dall’Austria, da Milano, e pareva dovesse incontrare il re.

Gianni, nei giorni successivi, cercò in tutti i modi di avvicinarsi nuovamente al gruppo, ma quell’uomo severo, probabilmente il padre dei due giovani, pareva un cane da guardia, molto attento a mentenere le distanze fra i suoi figli e il resto del mondo. Gianni riusciva soltanto a origliare le loro lezioni di piano, scoprì così che lei, la sorella maggiore, si chiamava Maria, o forse Marianna, non capì bene.

Gianni, però, nell’origliare quelle lezioni, scoprì una passione per quella musica mai sentita. Così forte, a volte furente, ma allo stesso tempo regolare, controllata, ragionata. Ne aveva parlato con i suoi genitori, che tuttavia non vi avevano dato troppo peso, ci mancava solo che un loro figlio volesse studiare pianoforte! Chissà quanto sarebbe costato, non se ne parlava nemmeno. Giù a Borgo Dora c’era un uomo che riparava pianoforti, a volte lavorava per il Teatro Regio, si chiamava Pinin. Gianni ogni tanto lo incrociava quando andava a Torino, era un uomo cordiale, chissà se sapeva qualcosa di quel curioso trio? Ma soprattutto di Maria o Marianna che fosse.

Passarono un paio di settimane, sempre nella speranza di incrociare nuovamente la ragazza o scoprire qualcosa di più su di lei. Il direttore dell’albergo si guardava bene dal raccontare qualcosa al facchino, ma una volta gli scappò che gli austriaci erano stati al teatro. A Gianni venne l’idea, così, di chiedere qualcosa a Pinin. Lo incontrò prima di andare all’albergo. «Signor Pinin – gli disse – sapete mica degli austriaci che alloggiano alla Dogana Nuova?». Pinin scosse la testa, ma era di fretta. Quella mattina, però, il ragazzo scoprì di aver perso troppo tempo. Giunto all’albergo, intravide l’uomo elegante e austero dal concierge, stava saldando il dovuto in presenza del direttore, che si profuse in elogi e saluti cordiali. Era finita.

Gianni salì alle stanze per recuperare i bagagli. In quel momento incrociò il giovane Amedeo, così serio e concentrato, ma tuttavia gentile, gli sorrise e lo ringraziò. Dietro di lui Marianna dagli occhi tristi, lo guardò. «Grazie per il vostro lavoro», disse lei. Gianni tolse il cappello e accennò un inchino. «Grazie a voi – disse – ma… tornerete a trovarci?». La ragazza fu sorpresa, quasi imbarazzata. Mentre sorvegliava con lo sguardo il fratello, che si avvicinava alle scale per raggiungere il padre, disse, cercando di smorzare il forte accento tedesco. «Dipenderà da mio fratello, se l’anno prossimo scriverà per il re o no». Poi lo salutò, forse pentita di quella piccola rivelazione, ma era troppo tardi.

Caricata la carrozza, aperta la porta e salutato ancora una volta gli ospiti, senza essere ricambiato da quell’arrogante e benestante signore, Gianni osservò la piccola diligenza allontanarsi, subito redarguito dal direttore dell’hotel che gli intimava di tornare al lavoro. Ma tutto sommato fu contento di aver strappato un minuscolo scampolo di vita a quella dolce ragazza dagli occhi tristi. La sera, tornato in Borgo Dora, incrociò di nuovo Pinini. Quella volta fu lui a fermarlo. «Ho indagato in teatro – gli rivelò – e può essere che tornino il prossimo anno per il re, forse il ragazzo scriverà un’opera per lui». Gianni si fermò, emozionato dalla possibilità di rivedere Marianna. «Chi è il ragazzo?», chiese. «Ma come – ribatté Pinin – voi ospitate Volfango Amedeo Mozart e nemmeno lo sapete?». Gianni la buttò sul ridere, fece finta di essersi dimenticato, ma tornando a casa continuò a chiedersi chi fosse questo Volfango Amedeo. «Magari entro il prossimo anno lo scoprirò», disse ad alta voce, mentre rientrava in Borgo Dora.

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