Soglio era un ragazzo piuttosto colto, di quell’intelligenza cresciuta solo allo scopo di sviluppare sufficiente furbizia. Da lì in avanti, poi, lui sfoggiava un grande bagaglio di cultura che utilizzava per compensare le carenze umane di cui ora soffriva, ora si vantava. Nella sua costante ricerca di cose da sapere era disposto a passare sopra relazioni e amicizie, era capace di dimenticare il rispetto solo per costruire la sua ascesa sociale a colpi di nozioni, collegamenti, approfondimenti estetici nutriti da una filosofia scopiazzata da testi recuperati chissà dove. Libri rispettabili, per carità, anche portatori di senso, ma che lui piegava ai propri scopi, al solo fine di giustificare la propria inedia.

Non so per quale motivo, ma quel personaggio sbucato dal nulla mi attraeva. Ne pativo il carattere e le conoscenze, mi nutrivo delle sue nozioni e delle sue spiegazioni, come un assetato che si abbevera a una fontana. Continuavo a bere, ma non mi dissetavo. In quel flusso di pillole culturali ben radicate, sostenute da solidi studi e utili ad aprirmi la mente, mi sfuggiva il senso, mi sfuggiva la possibilità di poter trovare attraverso la cultura una strada per emanciparmi, per soddisfare il mio bisogno di crescere.

Qualcosa avvenne quando Soglio mi portò alla Galleria Sabauda. Un edificio cupo e massiccio, incastrato tra piazza Carignano e via Accademia delle Scienze, che ogni giorno faceva a spallate con il Museo Egizio (che piano piano si preparava a sbarazzarsi dell’ingombrante coinquilino). Soglio mi salutò appena, era già concentrato sul percorso da fare all’interno della galleria, dato che lui era almeno alla quinta visita e conosceva quegli spazi a menadito. Con fare da docente universitario mi fece da guida.

Un po’ mi piacque, mi era sempre mancata una persona che mi insegnasse qualcosa di culturale e fui grato a Soglio per avermi fatto scoprire la Galleria Sabauda. L’enorme quadreria che intimoriva i visitatori, una tappezzeria di cornici che si arrampicava sulle pareti, pareva incombere su di me, severa e silenziosa. Ma con le spiegazioni della mia guida personale quei quadri iniziarono a parlare. Mi parlavano i re, mi parlavano le regine, mi parlavano anche i pittori, che attraverso le loro opere d’arte si rivolgevano all’ignaro osservatore con messaggi vecchi di secoli eppure ancora da interpretare del tutto.

Con le mani ossute e allungate, Soglio mi indicava i dettagli, i particolari che facevano la «firma» dell’autore, mi apriva il percorso tra le stanze e mi guidava da un’opera all’altra. Mi teneva al riparo dai lavori di qualità più scarsa, che improvvisamente mi apparvero in tutta la loro approssimazione, al punto che, ingenuamente, chiesi «ma perché questo quadro così brutto si trova in un museo?». Soglio sorrise, forse si rendeva conto di stare insinuando dentro di me la capacità di critica, che è la base di un pensatore, di un uomo di cultura, che fonda l’essere umano come elemento attivo della società. Il problema, capii molto tempo dopo, è che la differenza fra la persona di cultura e il colto arrogante sta nella capacità di modulare il proprio livello di critica in base al contesto.

Lui, intanto, pareva condurmi lungo un percorso già delineato, che in un crescendo di bellezza intendeva concludersi alla summa di quelle sensazioni, che venivano raccolte nella estrema precisione di un minuscolo quadro. Era lì, appeso con noncuranza, in una posizione anonima. Giovane olandese alla finestra fu dipinto da Gerrit Dou nel 1662. Al centro di questa minuta opera d’arte c’è una ragazza, intenta a raccogliere un grappolo d’uva da una vite che si arrampica intorno alla sua finestra. Forse è stata colta di sorpresa, una sorpresa piacevole, forse aspetta il suo astante e quella del grappolo è una scusa. Impossibile saperlo.

Mi colpì la cura del dettaglio, il tratto essenziale ma esaustivo, i lineamenti dolci e delicati della ragazza, che con altrettanta delicatezza compiva i suoi gesti. Ne rimasti impressionato, fu un regalo che Soglio mi concesse e ne fui emozionato. Mi informai sul quadro, sul pittore, scoprii che l’opera fu registrata nell’inventario di Palazzo Reale, a Torino, dal 1754. Poi fu prestata al Louvre insieme a un altro quadro di Gerrit Dou nel periodo della Rivoluzione Francese, ma nel 1815 tornò soltanto questo. A Parigi rimase La donna idropica e mi ritenni fortunato che quella «giovane olandese» avesse fatto ritorno a Torino, così da permettermi di osservarla, quasi di innamorarmene.

Anni dopo eliminai Soglio dalla mia vita. Le motivazioni furono diverse e tutte profonde, estrememente legate al suo uso delle conoscenze per scavare nelle anime delle persone e poi, dopo averle svuotate, gettarle vita. Il suo unico scopo era scavalcarle, ergersi a paladino del sapere e con questo sottomettere gli altri al suo servizio. Decisi di cancellare tutto di lui, ma subito dopo capii che non era giusto nei miei confronti. Così conservai qualcosa, la sete di cultura, l’ansia di sapere, liberandomi dall’uso che ne faceva. Le conoscenze erano mattoni per crescere, non strumenti per offendere.

Così conservai la Giovane olandese alla finestra e, quando la Galleria Sabauda si spostò a Palazzo Reale, diventando parte integrante del percorso dei Musei Reali, tornai a cercarla. Ma la sete di cultura che avevo mantenuto mi impedì di ritrovarla. La cercai distrattamente, perdendomi tra i quadri della nuova galleria, tra le stanze più ariose, bianche e accoglienti, che non intimorivano più ma anzi invitavano a sostare, a osservare, a perdersi. Quindi mi perdetti, passai alcune ore all’interno del museo e solo quando fu tardi mi ricordai di Gerrit Dou. Cercai velocemente il suo quadro ma non lo trovai, la fretta mi impose di lasciar perdere. Me ne andai sentendomi quasi in colpa nei suoi confronti, ripromettendomi che sarei tornato, che avrei rivisto quell’opera. Con la certezza che l’avrei trovata lì ad attendermi, senza alcuna arroganza, ma la piacevole sorpresa di una ragazza che apre la finestra, alla ricerca di un grappolo d’uva, e trova di fronte a sé una persona che l’ama.

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