Certo il tempo nuvoloso non aiuta. Si dice sempre così quando ci si sente tristi o stressati e fuori piove, o semplicemente non c’è il sole. Ma è chiaro che si tratti di una scusa, l’entusiasmo resta entusiasmo anche se diluvia.
Corso Verona è grigio, pesante, però mantiene la sua certezza: le auto parcheggiate a centro strada, che in vita mia ho visto sanzionare raramente. Lo ammetto, sì, anche io ho parcheggiato in mezzo alla strada, ma è accaduto solo una volta, lo giuro, ero di fretta, «solo 5 minuti». Insomma quelle classiche frasi che servono ad autoassolversi. Del quartiere, comunque, colpisce il vento libero di attraversare le strade e accarezzare i palazzi senza ostacoli, rallentando appena solamente in corrispondenza delle code davanti ai negozi e ai supermercati.
Le uniche testimonianze di vita socialmente accettate, in questo momento, sono diventate le code davanti ai negozi. Mi rendo conto io stesso di farmi inconsciamente la domanda «ma questo che ci fa in giro?» quando incrocio un passante. Poi capisco che anche l’altra persona avrebbe potuto pensare la stessa cosa di me, senza considerare che sto andando in giro senza mascherina perché ne possiedo solo una da bricolage. È pressoché inutile, oltreché palesemente imbarazzante in quanto inutile. Altrettanto imbarazzante è quella che mi sono procurato stamattina, una di quelle «lavabili» che il farmacista è stato così gentile da regalarmi. Scaccio dalla mente il pensiero degli altri che vanno in giro e mi dirigo ad acquistare pane e altro cibo.
In coda al panificio cerco di indossare la mia nuova mascherina, imbarazzante ma sensata. Ho i guanti di plastica e una busta in mano con altri farmaci arrivati oggi (continuo a far presente che non è colpa mia, davvero si tratta di una assurda combinazione di eventi che mi ha portato a frequentare la farmacia come mai prima d’ora). In ogni caso tiro fuori la mascherina, capisco come funziona, ha delle fessure ai lati dove infilare le orecchie. Non ci entrano, anzi sì, ma bisogna tirare, con i guanti faccio fatica, nel frattempo tocca a me e devo entrare mentre sto ancora armeggiando con la mascherina, in qualche modo ce la faccio. Però la mascherina mi copre mezza visuale e fatico anche a infilare pane, grissini e il resto nella busta. Fuori, intanto, si è materializzata una coda di cinque o sei persone che mi fissano con odio o con scherno. Alla fine sono uscito e, con calma, ho sistemato tutto altrove. Ma ho riscoperto il concetto di ansia che credevo di aver lasciato da parte, speriamo che resti fuori dalla porta di casa.
Fuori si sta di nuovo bene, pazienza se non c’è il sole. I grissini sono buoni, ho degli yogurt per me e persino una mascherina. La mattinata è stata stressante ma ho potuto di nuovo concentrarmi sul mio quartiere lanciando un nuovo progetto, si chiama Borgo Rossini Stories e la partecipazione è aperta a tutti. Chi l’avrebbe mai detto che, un giorno, questo quartiere non solo mi avrebbe ispirato numerosi racconti, ma mi avrebbe anche tenuto per mano in un momento del genere? Ora, a differenza del passato, mi accorgo che sto quasi assaporando ogni passo, ogni momento, ogni angolo di questa zona. Corso Verona, corso Regio Parco, via Foggia. Il tram fermo al centro della rotonda, il grigio che si abbina al grigio dei palazzi e al grigio del cielo. È il «grigio Torino», forse, quel famosissimo e odiosissimo colore che sembra caratterizzare la città, che la rende famosa nel mondo. O almeno questo è ciò che si dice in città. Io lo odio, l’ho sempre odiato, ma adesso mi rendo conto che anche il grigio è un colore.