«Adesso ci mettiamo qui seduti e mi raccontate di nuovo tutto, dall’inizio».
«Comandante, vi prego».
«Non dite quella parola, soldato, limitatevi a riportare i fatti».
Il soldato prese un respiro profondo, si sedette davanti al comandante e riprese il suo racconto. «Come vi ho detto – esordì – siamo saliti al Monte dei Cappuccini e abbiamo avviato le trattative, come ci era stato indicato».
«Bene».
«Dopo poco tempo, siamo riusciti a convincere gli svizzeri a passare con noi. A quel punto ci sono state aperte le porte della chiesa, anche perché la nostra superiorità numerica era diventata evidente».
«D’accordo, andate avanti».
«Quindi siamo entrati, con l’idea di lasciare il segno, ma abbiamo rilevato delle resistenze da parte degli spagnoli e dei torinesi».
«Ecco!».

Il comandante si alzò in piedi, afferrò una coppa di vino e iniziò a sorseggiare, mentre diede un’occhiata al calamaio e al foglio bianco. «Vedete – disse – il punto è proprio questo. Cosa intendete quando parlate di “lasciare il segno”?».
«Be’, ecco…».
«Non ho finito! Rispondente a questo dubbio ma anche al secondo che sto per porre. Che cosa significa “resistenze” da parte di spagnoli e torinesi?».
Il soldato si imbarazzò, volse lo sguardo distrattamente sugli oggetti che adornavano l’ufficio del comandante nel quartier generale. Cercava un appiglio, qualcosa che gli desse sicurezza per trovare un senso alle sue parole. Il comandante intuì l’imbarazzo e intervenne.
«Allora – disse, tornando a sedere al suo tavolo e posando la coppa di fianco al calamaio –, io penso che vi siate fatti prendere la mano e che ne sia nato un conflitto a fuoco. È corretto?».
Il soldato non rispose.
«Lo prendo come un sì. Detto ciò, a me non interessa cosa abbiate fatto lì dentro, mi interessa solo che non ne restino tracce, siamo intesi?».
«Signorsì».
«Molto bene. Per prima cosa, quali segni avreste lasciato?».
«Ecco… l’altare».
«L’altare cosa?».
«Credo abbia dei buchi, dei proiettili».
«Maledizione!». Il comandante diede un pugno sul tavolo, facendo traballare pericolosamente il vino. Poi si alzò di nuovo in piedi. Era nervoso, prese a fare su e giù per la stanza, fissando il soldato, di tanto in tanto, con odio.
«Statemi a sentire – disse il comandante dopo un po’ – dovete far sparire quell’altare, intesi?».
«Ma come facciamo?».
«Come avete fatto con i corpi».
«Quelli li abbiamo seppelliti».
«Allora seppellite anche l’altare!».
«Ma non sappiamo dove, non c’è spazio lì intorno. Se lo spostassimo nella cripta?».
«Va bene purché non si veda più, poi ci penseremo, fatelo subito».
«Agli ordini».
«Bene».
«Comandante?».
«Ditemi».
«Come spiegheremo l’assenza di un altare in una chiesa?».
Il comandante sbuffò, odiava chi poneva problemi, ma in quella situazione gli pareva la minore delle questioni. «Nessuno entrerà in chiesa finché non avremo costruito un altare nuovo, lo scriverò al Cardinale, mi inventerò qualcosa».
«D’accordo».

Il soldato si alzò, fece il saluto militare e si voltò verso la porta.
«Aspettate!» disse il comandante.
«Scusatemi».
«Non mi avete detto la cosa più importante, che fine ha fatto de Lorraine».
Il soldato restò in piedi e guardò in terra.
«Un cecchino l’ha colpito davanti al tabernacolo, un napoletano che stava con gli spagnoli».
«Cosa ci faceva de Lorraine davanti al tabernacolo?».
«L’aveva aperto con un colpo di moschetto».
«Immagino perché volesse “lasciare il segno” anche lì dentro. Mi sbaglio?».
«No, signore».
«E poi?».
«Lo sparo del cecchino deve aver acceso la polvere che portava al collo. È morto avvolto dalle fiamme».
«Mon Dieu».
«Lo abbiamo detto anche noi».
«Cosa?».
«Mon Dieu, prima di fermarci. Qualcuno ha detto “Mon Dieu”, ma non so bene chi».
«Me ne frego di chi l’ha detto».

Ci fu silenzio. Il soldato rimase in piedi, poi il comandante riprese il discorso.
«Allora, per capirci, de Lorraine ha valorosamente sconfitto alcuni soldati spagnoli che volevano ucciderlo».
«Come?».
«Una volta sconfitti, si è avvicinato al tabernacolo, attirato dal riflesso che emanava».
«Ma…».
«A quel punto, delle lingue di fuoco sono spuntate da lì e l’hanno avvolto, uccidendolo».
«Comandante, ma…».
«Un miracolo! Soldato, è stato proprio un miracolo, non trovate?».
«Veramente…».
«Un miracolo, è stato un miracolo, le lingue di fuoco, la luce».
«S-sì. Certo».
«Soldato, cosa è accaduto?».
«Un miracolo, signore».
«Molto bene. Sono sicuro che anche gli altri soldati saranno d’accordo, giusto?».
«Certo, signore».
«Bene, ora andate».
«Buona giornata, signore».

Il soldato uscì, quindi il comandante riprese in mano il vino, ne bevve alcuni sorsi e poi si sedette a scrivere il resoconto di quanto avvenuto il 12 maggio 1640 a Torino.

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