La tristezza. Solo tanta tristezza. Nella mente e nel cuore di Teo c’era solo tristezza. Quel voto basso, quel «sufficiente» scritto di fretta, quasi con sdegno, con la penna rossa, campeggiava sul foglio protocollo a quadretti che era stato, suo malgrado, il teatro di una disastrosa verifica di matematica. Oddio, disastrosa, tanti suoi compagni di classe avrebbero pagato per avere quel voto, ma Teo andava bene in quella materia, gli piaceva sommare e sottrarre numeri, spostare le virgole, risolvere le equivalenze. Al punto che se le inventava pure, nel senso che qualche volta, durante l’intervallo, aveva passato il tempo a creare problemi matematici da risolvere, osservato con ribrezzo da qualche suo compagno.

Quel giorno, però, il voto ottenuto nella verifica fu come una pugnalata. Li vedeva, li vedeva bene i suoi compagni che ridevano, sogghignavano nella consapevolezza di aver visto Teo scendere al loro livello. Nella constatazione che Teo, in realtà, era un mediocre alunno come loro, che non rappresentava nessuna minaccia, non era più in grado di mostrare a ogni valutazione quanto loro fossero inetti e scadenti. No, Teo era scadente esattamente come loro. E la regola vuole che se tutti sono incapaci, allora nessuno è incapace. Per questo nel marasma di inettitudine viene guardato con odio chi si solleva e ottiene risultati.

Teo non riusciva a spiegarselo. Come aveva potuto commettere quegli errori? Come aveva potuto deludere la sua maestra? Come aveva potuto prendere lo stesso voto di altri compagni che faticavano ancora con le tabelline? Furono inutili le frasi di conforto pronunciate da altri bambini, pochi in verità, che avevano compreso lo stato d’animo di Teo e cercavano di incoraggiarlo. «Può capitare», dicevano, «vedrai che andrà meglio la prossima volta, sei bravo, non succede niente».

Uscito da scuola, Teo camminava a testa bassa, la tristezza non se ne andava. Ma quel suo camminare senza guardare avanti lo portò a sbattere contro un albero, non lo aveva visto e cadde rovinosamente nel prato. I suoi compagni risero, alcuni lo presero in giro, una maestra invece corse ad aiutarlo. Era «quella di matematica». Lo guardò intensamente, quasi si sentì in colpa per il voto deludente, gli sorrise, lo aiutò ad alzarsi e si inginocchiò di fronte a lui. «Teo – gli disse – lo sguardo deve essere più alto. Lascia perdere la verifica, osserva il giardino». Il piccolo non capì, ma l’umore migliorò.

I giorni passarono, la primavera esplose e il giardino che circondava la scuola, nel cuore del quartiere, era sempre più verde. Le Vallette erano così, un gruppuscolo di edifici cresciuti tra i giardini. Tutto intorno le persone, i bambini, gli anziani, i bottegai, gli artisti, gli immigrati dal Sud Italia. Teo sembrò quasi nutrirsene, così prese a distrarsi. Dalla sua classe, infatti, lo sguardo volgeva sempre verso l’esterno, perché attraverso le finestre riusciva a vedere bene il giardino. Il rendimento tornò a essere quello di sempre, il «sufficiente» alla verifica di matematica restò un lontano ricordo, ma più della valutazione, più dello scherno subito da parte dei suoi compagni – che in breve tornarono nella loro malmostosa mediocrità – faceva male la botta presa sulla testa quando era uscito da scuola guardando per terra. Decise che non lo avrebbe più fatto.

Guardare più in alto ma senza superbia, guardare ad «altezza uomo», per vedere che cosa c’è davanti e goderne. Godere dei volti, delle sensazioni, dei riflessi di luce, degli sguardi, anche delle ombre.

Le scuole finirono, il quartiere si allontanò, Teo crebbe e si trasferì altrove, diventò uomo, diventò adulto. Passò tutto, restarono le ferite dell’infanzia, gli schiaffi della vita che lo fecero crescere, le sensazioni e i ricordi che formarono il carattere. Ma restò anche il giardino, che gli ricordava dove tenere gli occhi, gli ricordava di fermarsi per guardare in terra, così da poter osservare senza andare a sbattere e farsi male, o di guardare all’altezza giusta se voleva spostarsi, così da poter verificare dove si trovasse e avere rispetto di alberi e fiori. Le Vallette, ogni volta che tornava, nascondevano il verde tra le case, ed era la natura, sebbene costretta nei confini artificiali di un giardino, a indicargli la strada. «Osserva il giardino», pensò molti anni dopo, e a quel punto capì.

La foto in copertina è di museotorino.it

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