Il cortile a primavera è l’anticamera delle vacanze. Per i ragazzini della scuola elementare Fratelli Cervi, però, era anche un crocevia di storie, esperienze, volti. Era un cortile molto ampio, pieno di aiuole, alberi, sentieri asfaltati e sterrati, persino una rampa che scendeva nel seminterrato dove si trovava il refettorio. Le possibilità per inventare giochi si moltiplicavano, anche grazie al lungo tempo a disposizione nell’intervallo dopo pranzo.
In una di quelle belle giornate di sole, Pietro si ritrovò a ragionare con i compagni di classe a proposito di quel cortile. C’era chi faceva i confronti, chi diceva di possedere un cortile più grande di quello a casa propria, per poi svelare che in realtà si trattava del vialetto che attraversava i palazzi, dove ogni tanto scendeva a giocare a pallone con i vicini. Altro che cortile. C’era chi diceva di averne uno interno, ma era semplicemente l’androne del palazzo, e chi, più onesto, diceva di non possedere nessun cortile. Poi c’era Romano. Era un bambino strano, appariva così diverso dagli altri, spesso veniva a scuola senza cartella o portava soltanto il diario e una penna, non aveva mai libri, alle verifiche andava discretamente, ma prendeva voti che si appiattivano verso il basso. Pietro lo osservava con curiosità, anche perché molti suoi compagni lo tenevano alla larga, ma Romano se ne infischiava, strafottente com’era. Quel giorno si inserì nella discussione e disse di avere «un cortile grande grande, non come questo della scuola, questo è più grande, ma il mio è comunque grande». Gli altri bambini risero ma lui restò serio. «Guardate che è vero – aggiunse lui – e se non ci credete peggio per voi». Poi se ne andò a giocare con altri come lui.
Tornando in classe, i compagni di Pietro proseguirono lo scherno. Parlavano di roulotte, docce che non c’erano, figuriamoci il cortile, «il suo cortile sarà Porta Palazzo», e giù risate. Pietro, però, non rideva, continuava a cercare Romano con lo sguardo, ma si era perso nel marasma dei bambini che riempivano scale e classi. Dopo l’intervallo, il suo compagno strano non rientrò. Quell’anno ebbe poche altre occasioni per parlargli, perché Romano era sempre sfuggente, finché la questione passò in cavalleria. L’anno successivo la scuola fu chiusa e gli alunni trasferiti, di Romano si persero le tracce.
La questione del cortile fu un cruccio che, tuttavia, restò nella mente di Pietro, che quando crebbe iniziò a frequentare il centro di Torino per lavoro. Spesso gli capitava di infilarsi in qualche androne aperto, magari tra via Po e via Roma, per osservare i palazzi dall’interno, entrando nei cortili. Si scoprivano tanti altri mondi, quieti e sospesi, a pochi metri da vie trafficate e caotiche. Fu durante uno di quei pellegrinaggi lavorativi che Pietro ritrovò il suo vecchio compagno di classe. Era entrato in una pizzeria al taglio in via Po, doveva risolvere velocemente il pranzo per poi incastrare un altro appuntamento. Il titolare della pizzeria, mentre prendeva l’ordine di Pietro, chiamò un ragazzo per fare arrivare altre bottiglie d’acqua. «Romano, muoviti!» disse. Apparve il giovane, oramai uomo, con l’occhio vispo che aveva da bambino e la stessa espressione strafottente, messa su come autodifesa più che per reale dimostrazione di prepotenza. Pietro lo riconobbe, lo chiamò, gli disse chi era, Romano non capì, gli rispose in maniera frettolosa e andò a recuperare l’acqua. Pietro ne fu deluso, ma del resto era passato talmente tanto tempo che sarebbe stato difficile ricordarsi di un bambino. Prima di uscire, una volta terminato il suo trancio di pizza, Pietro incrociò ancora Romano e tentò l’ultimo approccio. «Non mi hai mai fatto vedere il tuo cortile grande grande» attaccò. Il ragazzo si fermò a fissarlo con curiosità, poi sul suo volto comparve un’espressione di sorpresa. «Non mi ricordo il tuo nome – si scusò Romano – però ho capito dove ci siamo visti, è passato tanto tempo». Si strinsero la mano come vecchi amici. «Ora devo lavorare – tagliò corto Romano – ma il mio cortile è alla Continassa, domani sono lì».
Pietro decise di andarlo a trovare, la Cascina Continassa era proprio vicino casa sua alle Vallette. Il giorno successivo andò lì. Da fuori, quella cascina sembrava completamente abbandonata. Pietro pensò di essere stato raggirato e decise di liquidare tutto con un’alzata di spalle, pensando a quanto fosse stato stupido. Decise di andarsene ma fu preso da uno dei suoi costanti attacchi di curiosità. Parcheggiò l’auto, scese e si diresse verso la cascina. Un luogo dismesso, pericolante e sporco, che trasmetteva una sensazione di insicurezza, al punto che più volte Pietro si voltò per guardarsi le spalle. Andò avanti, arrivò all’ingresso, un grande arco di qualche secolo prima che dava l’accesso a un grande cortile. C’erano dei bambini che giocavano, biciclette rotte, copertoni e stendibiancheria, poi scatole ammassate, robaccia varia e spazzatura. Tre donne sedute urlarono, Pietro si spaventò e davanti a lui comparve in pochi secondi un grande omone baffuto, che lo guardò malissimo. «Che vuoi?» gli urlò. «Scusate, cercavo Romano» rispose Pietro. «Chi è Romano?» ribatté l’uomo, sempre più bellicoso. «Niente, ho sbagliato casa, scusate ancora» disse Pietro, mentre si voltava per darsela a gambe, maledicendo se stesso.
«Roman!» sentì chiamare Pietro, quando aveva appena varcato la soglia del cortile per uscire,. «Guarda che forse questo cerca te, chi è?». «Un mio compagno di scuola, papà». Pietro si fermò, Romano lo raggiunse velocemente. «Ma… Ti chiami Roman o Romano?» chiese il ragazzo spaventato. «Roman, ma fuori da qui mi faccio chiamare Romano così nessuno fa domande tipo da dove vieni, da quanto sei in Italia, cazzate così». Romano, anzi Roman, viveva in quella cascina con la sua famiglia e tante altre famiglie, erano rom, quelli che Pietro era sempre stato abituato a chiamare «zingari». Le donne urlanti e l’uomo bellicoso si placarono e diventarono sorridenti, gli offrirono succo di pesca e biscotti confezionati. Pietro si sentiva a disagio, ma il sorriso delle persone era sincero. Roman indicò l’ampio cortile in cui si trovavano. «Guarda – disse – lo vedi quanto è grande?». In effetti era parecchio grande, per quanto pieno di cianfrusaglie. «Adesso la mia famiglia ti conosce – aggiunse, sempre con quel sorriso strafottente – così puoi tornare quando vuoi, se vuoi». Pietro ringraziò, fece ancora due chiacchiere e salutò tutti, promettendo di tornare la settimana dopo.
Non fece in tempo. Il giorno dopo, in quel freddo dicembre del 2011, Pietro sentì al telegiornale di uno stupro. Una ragazza denunciava di essere stata violentata da due «zingari». Subito, il ragazzo non collegò le cose, ma passarono ancora 24 ore prima di una fiaccolata che partì dal quartiere. Era nata come forma di solidarietà alla giovane, ma in poco tempo si trasformò in un assalto alla Continassa. Urla, gente che scappava, bastoni e vetri rotti, poi il fuoco, sacro e atavico rituale di insensata pulizia. Pietro corse a vedere, era tutto transennato, chiese di Roman, la Polizia gli intimò di andarsene, lui tornò a casa sconsolato e preoccupato. Non lo rivide più, neanche alla pizzeria al taglio, dove aveva smesso di lavorare. La cascina restò abbandonata per un po’ prima di diventare il centro sportivo della Juventus. Ogni tanto, però, quando passava in via Po, Pietro tornava a pensare a Roman. «Chissà – si chiedeva – se adesso ha un altro cortile grande grande».
La foto in copertina è di museotorino.it