Passi, viali, alberi, polline che pizzica il naso, mani sudate per via dei guanti in plastica. La cornice di corso Regio Parco è quelle delle passeggiate che si allungano per scansare gli altri abitanti del quartiere, del cane che tira verso il centro del giardino mentre il padrone si sforza di portarlo all’esterno. Le auto che finalmente sono oggetti estranei, soltanto increspature nell’equilibrio perfetto della natura piegata all’architettura urbana.
Le biciclette sfrecciano tra le poche persone che si aggirano per la zona, attraversano e tagliano in due i dialoghi, passano velocemente tra gli sguardi che cercano di intercettarsi a metri di distanza. Dove prima le panchine erano luoghi di convivialità, oggi sono i viali a essere il nuovo posto dove incontrarsi e chiacchierare. Rigorosamente con una busta in mano, perché non sorga il minimo dubbio, al passante appassionato di delazioni, che si sia usciti per motivi futili. E così le code di fronte alle farmacie e ai supermercati, di tanto in tanto, si alternano alle persone che parlano separate da due o tre metri di vuoto. Sono gli spazi a ridefinirsi. Si dilatano, si allungano, si deformano.
Ora è più semplice infilarsi nei discorsi degli altri, basta semplicemente passeggiare tra due persone che parlano. Scopri così che la moglie di un signore della zona ha fatto il tampone. Non sai chi sia, lui non l’hai mai visto – e anche l’avessi visto, con quella mascherina sarebbe difficile riconoscerlo – e figuriamoci la moglie. Però, sai, due settimane fa è stata male, ha avuto un po’ di febbre. Niente di che, per carità, ma sai, a quella età è tutto un rischio. Così il medico ha deciso di farle fare il tampone ed è risultato negativo. Meno male, dai, l’uomo invece non si sa se l’abbia fatto o meno, perché la passeggiata non è durata abbastanza per poter sentire il discorso completo. Si sentiva soltanto l’altro signore che annuiva ad alta voce, anche perché con la mascherina è difficile annuire. Chi se ne accorge? E comunque, diciamocelo pure, restare fermi ad ascoltare non sarebbe stato opportuno, a meno di non aver avuto qualcosa da dire per intervenire nella conversazione. Solo che poi sarebbe stato un discorso a tre, in un attimo sarebbe diventato un assembramento. No, meglio di no.
E così via, per altri discorsi, altre conversazioni che si intercettano. Persone che raccontano i propri mali, i propri acciacchi, le proprie preoccupazioni. Borgo Rossini come un social network, almeno per qualche settimana, dove semplicemente spostandosi da un luogo all’altro è possibile incrociare le vite delle altre persone in maniera riservata, ai limiti del voyeurismo. E poi che male c’è? A differenza di un social network, le conversazioni poi svaniscono nell’aria, tra le fronde dei tigli o dentro la brezza della Dora.
Il sole scalda e ricorda di mettere via i piumini, in effetti ne parlava anche quella signora in via Pisa con un’altra signora all’angolo con via Messina. Però, certo, la sera fa ancora freddo. Ma tanto chi esce la sera? È il caso di metter via la giacca a vento, ora siamo sicuri che tanto non ci servirà più almeno fino a ottobre. Così diceva quella signora e così diceva anche l’altra signora che si trovava in coda davanti alla farmacia, anche perché durante l’attesa parlava con il telefono in viva voce mentre si barcamenava tra guanti, borsa e mascherina. Spenti i rumori, spento lo smog – almeno, questa è la sensazione, poi vai a vedere – restano le voci e i cinguettii delle cinciallegre. Anzi, a volte diventano la stessa cosa.