Domani, 5 gennaio, Umberto Eco avrebbe compiuto 90 anni. Ora esce in libreria un volume, Filosofi in libertà, edito dalla «sua» Nave di Teseo, casa editrice che il filosofo e semiologo alessandrino contribuì a fondare, pochi mesi prima di lasciarci, insieme a Elisabetta Sgarbi. Per il Corriere Torino, ieri, ho avuto l’opportunità di scrivere un articolo in sua memoria, a partire proprio da questo volumetto.

Eco, che aveva la capacità di «mettere agli altri la voglia di studiare», agli inizi, sotto lo pseudonimo «Dedalus», fece sfoggio della propria ironia nel dipingere una vera galleria di ritratti degli autori a lui più cari: da Joyce a Proust, fino a Thomas Mann. Era il 1958 e la scelta di non utilizzare il proprio nome servì a non compromettere la carriera in ambito accademico, ambiente poco incline a «giocare» con scritti e rime. Dal 7 gennaio, questo libercolo tornerà a disposizione dei lettori dopo diversi decenni, sebbene, nel tempo, l’opera sia stata talvolta ristampata, ma in poche copie indirizzate a estimatori o amici.

Un’opera che nacque in anni di sperimentazione, in cui veniva messa in discussione soprattutto la struttura tradizionale del romanzo. Poco tempo dopo l’uscita di Filosofi in libertà, infatti, Umberto Eco entrò nel Gruppo 63. Era l’anno del celebre convegno di Palermo, il 1963, quando movimento definito di «neoavanguardia» si ispirò al Gruppo 47 (come suggerito da Luigi Nono), nato in Baviera nel 1947. Eco vi prese parte con diversi scrittori e intellettuali dell’epoca, come Alberto Arbasino, Nanni Balestrini, Renato Barilli, Achille Bonito Oliva, Giorgio Celli, Furio Colombo, Giorgio Manganelli, Giulia Niccolai, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti, Adriano Spatola e Sebastiano Vassalli. Il gruppo si sciolse nel 1969 ma diede vita ad alcune riviste e numerosi testi critici, in cui Torino riuscì a rivestire un ruolo importante, «accogliendo» diversi scrittori e intellettuali.

Umberto Eco, che poi si distaccò dal Gruppo 63, ha sempre lavorato nell’indagine in ambito comunicativo e l’ironia rappresentava una sorta di grimaldello. «Sia di monito per generazioni a venire – recita la citazione scelata della Nave di Teseo su Filosofi in libertà – scherzare sì, ma seriamente». Del resto era una delle cifre stilistiche di Eco: l’ironia come strumento per criticare con eleganza, per far emergere più facilmente contenuti e temi, per comunicarli con efficacia.

Nel suo ultimo romanzo, Numero zero (2015), si era concentrato sul mondo dei giornali. Nel libro, pubblicato da Bompiani, si racconta la nascita di un giornale che non esce in edicola, ma la cui «minaccia» di fare inchieste «scomode» sembra sufficiente a smuovere poteri e persone. Sullo sfondo c’è la Milano oscura dei movimenti fascisti sotterranei, dei salotti, del fervore sociale, dove il buon giornalismo è un biglietto da visita non tanto per smascherare i «poteri forti», ma per diventarne parte. Una critica feroce e molto articolata che si presta a diverse interpretazioni. Era una sorta di libro-profezia, dato che qualche anno dopo Domani è uscito veramente: è la nuova creatura di Carlo De Benedetti, diretta da Stefano Feltri, che nulla c’entra con il giornale immaginato da Umberto Eco. Però, facendo tesoro dei suoi insegnamenti, abbiamo deciso di fare un po’ di sana ironia anche qui, per questo ripropongo il link a un mio vecchio articolo, scritto in proposito su Gazzetta Torino. Niente polemica, solo voglia di «scherzare seriamente».

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