Come è già noto, il tema di Artissima quest’anno è Transformative Experience, un concetto elaborato dalla filosofa americana Laurie Ann Paul, docente a Yale, nell’omonimo libro. «L’esperienza trasformativa – ha ripetuto Luigi Fassi, direttore di Artissima, citando Paul – è quella che apre nuovi orizzonti ai nostri sensi, ai nostri pensieri e alle nostre emozioni, sino a poterci cambiare in profondità come persone». Il concetto è molto più elaborato e può essere applicato alla vita di tutti i giorni, perché l’esperienza trasformativa può banalmente essere qualunque cosa.

Ciò che più mi ha colpito è che una fiera d’arte così importante abbia deciso di partire da un libro, anche questa è un’esperienza trasformativa e ho fatto un giro al book corner grazie alle foto gentilmente concesse dalla collega Sara Sonnessa.

Lui avrà vissuto la sua esperienza trasformativa con questa foto?

Mi sono chiesto spesso cosa fosse un’esperienza trasformativa e che cosa comportasse per una fiera d’arte. Così ho esplorato Artissima, una realtà che apprezzo molto ma che riconosco di non riuscire a comprendere fino in fondo. Un po’ perché non mi ritengo un esperto di arte, un po’ perché raramente questo genere di arte mi comunica sentimenti o contenuti di qualche genere. Eppure, devo dire, quest’anno ho sentito qualcosa di diverso.

Ho potuto davvero fermarmi a osservare delle opere, per cercare di immaginare dei significati, delle storie. Questa volta ho trovato tutto più comprensibile e in effetti, ascoltando critici ed esperti d’arte, mi è stato detto che Artissima, nella sua edizione 2022, ha perso qualità. Mi è piaciuta molto anche Paratissima, per dire, del resto i critici con cui ho parlato l’hanno praticamente massacrata. Citando un battuta tipica di chi prende in giro i boomer: «fa ridere ma anche pensare».

Non ho gli strumenti per giudicare, ma solitamente pubblico e critica non sono mai d’accordo. Ciò che piace al pubblico non piace alla critica, ciò che piace alla critica è incomprensibile per il pubblico. Non è certo una regola, ma spesso avviene, nell’arte soprattutto. Quindi, forse finalmente, mi sono sentito pubblico. Il problema di quando fai il giornalista è che qualunque cosa tu vada a seguire, ovunque tu entri, sei condizionato da una visione professionale e critica (be’, in teoria). Questo spesso impedisce di lasciare il campo alle emozioni ed è il motivo per cui, specialmente alle mostre, preferisco tornare «in borghese» per godermi appieno l’esperienza.

Mi interessa poco stabilire se Artissima sia o meno fantastica e mirabolante, perché quella è un’operazione da critico. Ma è anche vero che, nel momento esatto in cui mi sono sentito pubblico, ho agito da pubblico e mi sono fumato una mezza notizia. Pazienza, i giornalisti non salvano le vite (al massimo le rovinano).

Anche questa è stata un’esperienza trasformativa? Può darsi. In effetti noi giornalisti fatichiamo a sentirci pubblico, non vogliamo essere pubblico, amiamo essere al di sopra del pubblico e ci dimentichiamo che chi ci legge, guarda un po’, è proprio il pubblico. Come facciamo a intercettarne bisogni e necessità se ce ne allontaniamo? Occhio, però. Questo non significa che dobbiamo muoverci per seguire il pubblico, perché altrimenti ci fumiamo la proverbiale notizia, come è successo a me ieri. Per dire un’estrema banalità: serve equilibrio.

Come i giovani calciatori provano l’esperienza da arbitro – o almeno so che talvolta la provano – così i giornalisti dovrebbero provare di tanto in tanto l’esperienza da pubblico. Non è così difficile, perché prima di essere giornalisti siamo (stati) pubblico. Io, dal mio punto di vista, proverò a farlo più spesso, perché quando sei a corto di idee e di ispirazione puoi fare solo una cosa: ascoltare. Magari sarà questa l’esperienza trasformativa che mi ha trasmesso Artissima, non me ne vogliano i critici.

E sì, ho usato la prima persona singolare, ho detto «io» più volte, ma del resto sono pur sempre un giornalista e questo è il mio blog personale. Dai, perdonatemi.

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