Strade, lampioni, controviali che si intuivano dalle chiome degli alberi. Seduto sul sedile posteriore dell’auto guidata da suo padre, anzi, oramai sdraiato, Alberto osservava la città che scorreva sopra di lui. Stava iniziando la sera, le luci urbane assumevano riflessi insoliti, persino irreali a causa della rifrazione dei riflessi fra i vetri scuri dell’auto. Abbandonato in quella posizione, mentre l’auto sfilava nel traffico torinese, il ragazzo cambiò la prospettiva del viaggio ed esplorò con curiosità quella nuova percezione. Perché le svolte, le accelerazioni, le frenate, ogni movimento della vettura erano diversi, si sentivano in maniera diversa.

Il momento più emozionante era stato però l’uscita dall’autostrada. Alberto se ne accorse perché riconobbe dai finestrini le ciminiere della centrale termoelettrica, che presidiava l’ingresso della città all’inizio di corso Regina Margherita, quando ancora l’enorme viale non si distingueva, nelle fattezze, dalla tangenziale. Sentì l’auto che rallentava, mentre il peso del suo corpo lo fece lentamente scivolare dal seggiolino al sedile di fronte a lui, dove era seduta sua madre che, probabilmente, si era assopita per via del lungo viaggio. Le forze vettoriali prendevano controllo del suo corpo, Alberto si lasciava piacevolmente dominare mentre le caviglie si infilavano malamente sotto il sedile del passeggero. Poi la svolta, l’auto imboccò lo svincolo per via Pianezza e il cambiamento di direzione diede un’ulteriore spinta al corpo del ragazzo, che lentamente si sdraiava del tutto sul sedile posteriore. Quindi arrivò il culmine di quel viaggio emozionale. Il padre di Alberto, impegnato in una difficoltosa svolta fra la rampa che usciva da corso Regina Margherita e la trafficata via Pianezza, diede un’accelerata vigorosa per consentire all’auto di immettersi nel traffico. Alberto fu riportato con forza sullo schienale del sedile, ma era oramai sdraiato su un fianco e non poteva più tornare seduto composto.

Mentre il cielo che si intravedeva dai finestrini era cambiato, lasciando intravedere i lampioni e gli alberi, Alberto capì che non gli restava molto tempo. A breve sarebbero arrivati a casa e, a vederlo in quella posizione, i genitori lo avrebbero sicuramente rimproverato. Ma era troppo dolce la sensazione dell’auto che rallentava all’altezza dei semafori, così come era divertente scivolare con delicatezza da una parte all’altra del sedile mentre la vettura cambiava corsia o svoltava in una via secondaria. Per non parlare della rotatoria! Oh, quella sì che fu emozionante. Alberto sentiva il viso che si strofinava sul coprisedile, mentre senza troppa convinzione si divincolava in silenzio, per cercare di tornare seduto come prima. L’auto che correva – questa era la sensazione, in realtà non andava granché veloce – faceva credere al ragazzo di trovarsi su una giostra. Una bellissima giostra totalmente sicura.

Gli alberi si fecero più folti, i lampioni più radi, la luce più delicata e il cielo più scuro. Era oramai troppo tardi, Alberto non avrebbe più fatto in tempo a rimettersi composto. Decise, così, di rinunciare e scoppiò a ridere. La risata, però, svegliò sua madre e risvegliò suo padre dalla totale concentrazione che stava dedicando alla guida. «Alberto!», disse il padre. «Alberto!», disse la madre. L’auto si fermò a poche centinaia di metri da casa. I genitori, allarmati, scesero entrambi e si gettarono sul ragazzo per tirarlo su, rimetterlo a sedere composto, poi battibeccarono. «Dovevi allacciarlo meglio!», disse lei. «Mi avevi detto di averlo fatto tu!», disse lei. Si sentivano in colpa, erano smarriti, preoccupati perché quella posizione avrebbe potuto creare danni al già martoriato corpo del loro figlio, che faticava a star dritto, faticava a coordinare i movimenti e a parlare. Ma i genitori si calmarono in poco tempo, perché Alberto riusciva a far bene una cosa più di tutte. Ridere. E Alberto rise, rise tantissimo perché era contento. Almeno per una volta, per poco più di un quarto d’ora, era riuscito a osservare il mondo da una posizione diversa rispetto a quella imposta dal suo seggiolino, una posizione con la quale era obbligato a convivere ogni giorno, in auto o in casa, e che nella sua intraprendenza era riuscito a infrangere. Alberto continuò a ridere.

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