Oltre alla mia newsletter settimanale, Torino Teatro, ho deciso di utilizzare questo blog anche per scrivere le recensioni di ciò che vado a vedere. Se ti vuoi iscrivere alla newsletter puoi cliccare qui, mentre la recensione è qui di seguito. Ho visto Cecità di Virgilio Sieni, ispirato al libro di José Saramago, che ha aperto la stagione di Fondazione Tpe al Teatro Astra (il cartellone ha a sua volta ha come titolo Cecità). Sarà in scena fino a domenica 12 novembre.
La scelta di aprire la stagione di Fondazione Tpe con Cecità di Virgilio Sieni, da parte del direttore Andrea De Rosa, è certamente coraggiosa. In scena al Teatro Astra di Torino fino al 12 novembre, l’opera non appare di semplice comprensione, ma la bellezza insita in questo lavoro consiste proprio in questo. Occorre aver letto il capolavoro omonimo di José Saramago, occorre anche conoscere – almeno un minimo – il lavoro del coreografo Virgilio Sieni, che sovente lavora con artisti non vedenti e questa volta ha scelto di «togliere la vista» a danzatori vedenti. In questo senso è un peccato che si percepisca poco, perché bisogna almeno sapere che gli artisti in scena si stanno muovendo a occhi chiusi, altrimenti è difficile intuirlo, ma forse non era possibile fare diversamente. Insomma, bisogna andare preparati.
L’opera è divisa in tre parti. Sieni ci catapulta in uno spazio bianco, un telo calato sul palco che divide il pubblico da ciò che succede lì dietro, come se la quinta si spostasse alla ribalta. Vediamo delle forme, corpi che di volta in volta compaiono e scompaiono, senza essere definiti e definibili. Sono ombre che si muovono come fossero dei fotogrammi che velocemente si alternano, riportandoci all’origine del cinema. Hanno in mano degli oggetti, interagiscono fra loro, ma non capiamo. È la sensazione che provano i protagonisti di Cecità di Saramago. Siamo spaesati, confusi come loro, ci sforziamo di vedere e non ci riusciamo. Oltretutto i suoni aumentano il livello di confusione, fino a diventare quasi disturbanti ma mai fastidiosi. Nel momento in cui ci sembra di averne abbastanza tutto si spegne.

La seconda parte ce li fa vedere, questi corpi. Si agitano, bisbigliano, si aggrediscono, si violentano, è l’uomo che si decivilizza e torna a uno stato quasi cavernicolo, aspetto incrementato e sottolineato dai costumi. Sul palcoscenico c’è una gran confusione, oggetti che non sempre riusciamo a identificare vengono manipolati, lanciati. Che ce ne facciamo delle nostre «cose» se non le vediamo? Possiamo muoverci solo insieme agli altri, quegli altri che fino a poco tempo prima abbiamo abusato e graffiato, ma ci servono e noi serviamo a loro. La comunità si sfalda e si ricompone, in questo agitarsi di corpi disperati perché, da un momento all’altro, privati di quello che è probabilmente ritenuto il senso principale: la vista.
La terza parte ci conduce verso un mondo animalesco e quasi grottesco, dove gli umani prendono le sembianze di animali. È un passaggio, anche qui, forse disturbante. Un personaggio mascherato e dalle movenze goliardiche agisce da improvvisato saltimbanco e sbatte un microfono qua e là, causando rumori improvvisi, forti, a dare un ritmo vagamente tribale allo sviluppo in senso animale dell’essere umano. Si coglie un riferimento al De rerum natura di Lucrezio e del resto è proprio la dimensione lucreziana ad aver colpito Sieni, con la natura che, da un momento all’altro, può prendere il sopravvento sull’uomo. E così «basta» una sorta di epidemia, una perdita collettiva della vista, per trasformare gli esseri umani in piccoli animaletti in cerca di cibo, incapaci di interagire con l’ambiente, pronti a prevaricare il più debole. Il bianco che imperversa, sulle pareti e sul pavimento, è un rimando all’attualità. Che cos’è quel luogo? Un ospedale? Un reparto psichiatrico? Allo spettatore la facoltà di immaginarlo.

Lo spettacolo fa riferimento a un’estetica sperimentale che se al primo impatto può spiazzare, al termine fa ragionare. Cecità di Virgilio Sieni va elaborato, compreso, va introiettato dentro un ragionamento più ampio. Cos’è un essere umano senza la società che si è costruito intorno? Cosa avviene se, di colpo, la rimuoviamo? Forse ci fa persino paura pensarlo. E anzi, come ha scritto Saramago, forse siamo davvero «ciechi che vedono».