Non ci sono gli scacchi nel libro La mossa del matto di Alessandro Barbaglia (Mondadori, 2022). O meglio, ci sono ma non sono il centro dell’opera. Il volume ripercorre una parte della vita del celebre scacchista statunitense Bobby Fischer e in particolare il «match del secolo», la finale mondiale fra lui e il russo Boris Spasskij nel 1972. Prima di leggere questo libro occorre avere bene in mente che non è un libro sugli scacchi. Forse qualcuno resterà deluso, forse no, ma qui dentro l’autore fa un’operazione estremamente interessante, collegando la vicenda di Fischer e Spasskij a quella di Achille e Ulisse. Mitologia e scacchi, Guerra fredda e turbe mentali, stanzini delle scope e ribalta mediatica. Tutto si annoda e si snoda in un dialogo, quello dell’autore con suo padre.
Perché sì, Alessandro Barbaglia sembra aver scritto questo libro per saldare una mancanza, quella che la vita gli ha provocato portandogli via il padre troppo presto. Mentre il lettore si addentra nelle stanze piccole e chiuse della mente di Bobby Fischer, dove l’unica finestra sul mondo è rappresentata da una tavoletta suddivisa in 64 caselle, non si può non notare come l’altro protagonista del racconto sia in realtà il padre. La figura del padre, lo psicologo che riusciva a entrare nelle menti sigillate dei suoi pazienti, senza scardinarne le serrature ma convincendo quei pazienti, spesso carcerieri di loro stessi, ad aprirle. Qui la mitologia si intreccia a sua volta con la psicologia.
Più che psicologia in senso stretto, intesa come materia che studia la mente, la psicologia che Barbaglia ci mette di fronte parla di rapporti famigliari, bambini e padri. O meglio, facendo un ulteriore salto – come un cavallo che supera gli altri pezzi sulla scacchiera – fra persone in cerca di una strada da seguire e potenziali maestri. Che fosse, in qualche modo, Spasskij il maestro inconsapevole di Fischer? O forse Fischer era inconsapevolmente bisognoso di conoscere le mosse di Spasskij per trovare una strada? Non lo sappiamo e giustamente questo libro non ci aiuta a capirlo. Ma non siamo noi, a ben vedere, tutti in cerca di qualcuno che ci spieghi qualcosa? Che ci indichi quale mossa fare o almeno ci dia gli strumenti per capirlo?
L’interesse dell’autore per questa figura apparentemente incomprensibile, quella di Bobby Fischer, appare anche una sorta di tributo nei confronti di suo padre: è come se Barbaglia, scrivendo questo interessante volume, abbia voluto portare a termine qualcosa che era rimasto in sospeso. La storia di Bobby Fischer, in effetti, è un romanzo di per sé, inutile costruire un’impalcatura letteraria su questo personaggio. L’autore lo utilizza come grimaldello per guardare dentro se stesso e per spingere il lettore ad andare oltre. Forse un personaggio bizzarro, magari volutamente bizzarro, che compie azioni genericamente insensate, ha molto di più da dire oltre agli scacchi. Il genio di Fischer è tale proprio perché non si comprende, ma anche perché nasce da un profondo malessere. Dando un’occhiata in quel pozzo profondo che è la mente di Fischer si rischiano le vertigini; è più rispettoso restare sul bordo. Intuire, ascoltare, accettare. E parlare anche a chi non c’è più perché sì, questo ci serve davvero.
Del resto gli scacchi non sono soltanto un gioco di strategia, ma sono uno strumento per aprire la mente e imparare a ragionare. Ma sono anche una metafora della vita. Gli apprendisti leggono le trascrizioni delle partite dei maestri – di cui Barbaglia ci offre un compendio in coda al libro – e le imparano a memoria, le riproducono, le studiano, ne acquisiscono i punti di forza e poi giocano.